"Lasciate che chi non ha voglia di combattere se ne vada. Dategli dei soldi perche' acceleri la sua partenza, dato che non intendiamo morire in compagnia di quell'uomo. Non vogliamo morire con nessuno ch'abbia paura di morir con NOi!"
Enrico V-William Shakespeare

mercoledì 31 marzo 2010

Ai confini dell'umano :racconti di vite ai margini della Bossi-Fini

Cosa hanno significato gli anni della Bossi-Fini per i migranti in Italia?

Ecco la legislazione italiana in materia di immigrazione, raccontata attraverso le storie vere delle sue "vittime".



Un lavoro realizzato da varie associazioni italiane e straniere, aderenti al Centro Interculturale Massimo Zonarelli di Bologna.



Il bambino muto
Hassan ha 11 anni, frequenta la quinta elementare in una scuola di Bologna. Tutte le maestre si lamentano e chiamano quasi quotidianamente suo padre e/o un mediatore culturale che l’ha accompagnato nell’inserimento: il bambino non parla, il bambino è come muto, il bambino spesso ha reazioni “violente” con i suoi compagni… ogni volta che Hassan da uno spintone a un compagno la maestra fa chiamare il padre, ogni volta che non fa i compiti assegnati la maestra fa chiamare il padre, ogni volta che ad aspettarlo all’uscita da scuola c’è suo fratello di 17 anni anziché un maggiorenne autorizzato, la maestra fa chiamare il padre…

Hassan è un problema.
Il padre è esasperato: tutte le volte per andare a scuola a parlare con la maestra deve chiedere un permesso al capocantiere. Non ha ancora il contratto regolare che gli hanno sempre promesso e si sente in pericolo, a ogni chiamata a scuola vede allontanarsi il contratto e avvicinarsi una possibile espulsione quando dovrà andare a rinnovare il permesso di soggiorno senza una prova del suo lavoro. Al ritorno dal colloquio con la maestra, dove non ha capito proprio tutte le parole ma ha capito che Hassan non si comporta bene, sgrida duramente il figlio e lo minaccia di rimandarlo a casa nel deserto se non si mette a “rigare dritto”. Ma Hassan non parla neanche con suo padre, anche se capisce fin troppo bene le sue parole.
Hassan frequenta anche un doposcuola di volontari presso un oratorio vicino a casa sua. Lì si concentrano molti bambini di origine straniera, come lui con difficoltà scolastiche, ma anche qui lui è muto, non si esprime ed è spesso in scontro con gli altri. Qui gli educatori volontari hanno pazienza, non pretendono risultati, ma non sono specializzati nell’insegnamento di una seconda lingua.
Hassan è in Italia solo da pochi mesi per ricongiungimento con suo padre. Ha lasciato dietro di sé le palme, il sole del Marocco, il silenzio del deserto e… sua madre. A scuola non hanno fatto molte domande quando l’hanno iscritto perché è nell’età dell’obbligo, solo un breve test di matematica. Però non c’è nessun corso di lingua italiana per lui, in pratica lo hanno ammesso senza un percorso di inserimento: non ci sono i soldi per ore extra.
Il suo problema è che, dopo 3 mesi, ancora non capisce quasi nulla di quello che gli viene detto. La maestra gli si rivolge sempre più sgarbatamente perché non sta attento, perché non completa i compiti, perché non capisce; i compagni, dopo un primo momento di curiosità, lo prendono in mezzo perché sembra stupido: a volte gli allungano un calcio sotto il banco così quando lui reagisce tirando un oggetto al “provocatore” viene sgridato dalla maestra. La scuola non dispone di ore di insegnamento di italiano per lui, però dispone di uno psicologo per i bambini difficili. Chi può negare che Hassan sia “difficile”? così viene mandato dallo psicologo. Ma lui non capisce quello che gli dice quel signore che lo fissa perplesso.
Il padre è preoccupato: la decisione di portarlo in Italia con sé e con i figli maggiori, facchini o manovali precari come lui, era nata dal proposito di garantire almeno a lui più opportunità in una grande città di un paese ricco dove la scuola è vicina e aperta a tutti, mentre nel loro villaggio la scuola media non c’è e non ci sono neanche i soldi per mandarlo in collegio in città per proseguire gli studi. Ma non pensava che accudire un ragazzo di 11 anni fosse così complicato: al suo paese, in campagna, a 11 anni un ragazzo può già lavorare nei campi e pascolare il bestiame, mentre ha imparato che qui non può neanche uscire da solo da scuola, anche se abita a due isolati di distanza! Chiede perplesso al mediatore culturale perché non lasciano andare a casa da solo suo figlio, perché fanno tutte queste difficoltà, si arrabbia, dice che devono smetterla con queste continue lamentele e devono lasciarlo studiare in pace anziché creare problemi, altrimenti prenoterà il primo aereo e lo rimanderà nel deserto. Ogni volta che sente queste parole, “primo aereo”, Hassan si chiude ancora di più nel suo mondo muto. Ora si sente infelice, è vero, gli manca sua madre e i suoi amici del villaggio, ma anche lui è convinto che solo resistendo in questo mondo così brillante, così pieno di luci e di cose potrà alla fine entrarci e possederlo, appropriarsi anche lui di tutti quegli oggetti che per qualche motivo “fanno la differenza”. Come i suoi fratelli più grandi, che sono ammirati e rispettati quando tornano al villaggio, e portano sempre addosso tutti i simboli del “successo”. Quindi si chiude ancora di più in sé, determinato a non farsi ricacciare nel del deserto.
Il padre tuttavia non ha tempo di preoccuparsi troppo per Hassan, perché deve affrontare la lotta quotidiana per mantenere il permesso: il padrone e il capocantiere innanzitutto, ma c’è anche la burocrazia, le file, le impronte digitali, l’affitto da pagare (per fortuna condivide l’appartamento con altri lavoratori - molti, troppi - e proprio per queste condizioni abitative non ha potuto far venire anche sua moglie), i soldi da mandare a casa - questi soldi che non bastano mai – ci mancavano solo le maestre a chiamarlo tutte le settimane!
Al doposcuola dell’oratorio Hassan fa amicizia con il figlio del mediatore culturale, che ha la sua stessa età: sa parlare abbastanza in arabo marocchino e condivide con lui la passione per il calcio. Abdelkarim ha sentito parlare di lui a casa da suo padre ed è incuriosito da questo ragazzo “che non parla”: osservandolo si accorge però che il problema di Hassan è molto più banale di quanto sembra: semplicemente non sa l’italiano! Diventando amico di Abdelkarim, che è imbattibile a calcio e anche per questo è molto rispettato dagli altri ragazzi, in un certo senso Hassan “sale di status” nel gruppo e dopo qualche tempo nessuno più gli fa scherzi e provocazioni apposta per farlo rimproverare e poter ridere di lui, anche perché il suo nuovo amico è in grado di rispondere e smascherare le tante piccole “cattiverie” di cui spesso era vittima. Finalmente, sentendosi accettato dal gruppo dei coetanei, comincia a rompere il suo inquietante silenzio e a comunicare in qualche modo con i compagni. Intanto ha preso a frequentare anche un gruppo di aiuto dell’associazione Annassim al centro Zonarelli: lì ci sono alcune donne italiane e straniere, anche del suo paese, che si trovano insieme per imparare un po’ la lingua e anche per socializzare: comincia ad andarci Anche lui una volta alla settimana, si esercita con la lingua italiana e si sente come coccolato tra tante “zie”. Da quel momento, in modo naturale, le parole italiane prendono a entrare nel suo cervello senza che lui si sappia neanche spiegare come. A forza di passare tutti i pomeriggio all’oratorio, prima dell’estate è diventato un fenomeno a ping pong e a quel punto nessuno più osa mancargli di rispetto e anche la scuola non gli sembra più così inospitale.
Forse qualche porta davvero si aprirà per lui. Forse qualche opportunità gli verrà incontro. Almeno fintanto che durerà il limbo della minore età: perché a 18 anni anche per lui comincerà la corsa ad ostacoli del permesso di soggiorno, l’affanno continuo dietro a un contratto formale, a una busta paga e la vecchia minaccia di suo padre “altrimenti prendi il primo aereo e te ne torni nel deserto” risuonerà di nuovo nelle sue orecchie, ma questa volta con un suono molto più sinistro…

La storia di Pedro
Pedro ha circa 35 anni, il suo viso indio e la corporatura non molto alta ma robusta tradiscono l’origine andina: viene dalPerù. Lo incontriamo all’interporto dopo il lavoro.
La prima a partire era stata sua sorella, ci racconta, rientrata in Perù per la prima volta dopo 6 anni di emigrazione: tre anni trascorsi da clandestina e tre da regolare Nonappena rientrata compra una casa.
Pedro è laureato e faceva il maestro, ma non guadagnava molto, aveva già un bambino e sua moglie è casalinga. Sua sorella gli dice continuamente: non stare a perdere il tuo tempo qui, ti trovo io un’amica italiana che ti regolarizza come domestico. Lui sottolinea che non era povero però: con circa 300 euro al mese di stipendio riusciva a mantenere la famiglia e vivere con dignità.
E’ stata sua sorella a insistere con lui e sua moglie per venire in Italia, e a mettere questo tarlo nella loro mente e, dopo aver riflettuto un po’ su, la coppia decide di comune accordo che sarebbe stata la moglie a partire in modo che lui potesse mantenere il suo posto di lavoro, che rappresentava comunque una sicurezza. Hanno quindi pagato 6.000 $ (presi in prestito) a un trafficante e la donna è stata accompagnata fino in Argentina, dove il trafficante è puntualmente scomparso con i 6.000 $. Pedro è andato a prenderla dopo una settimana che era praticamente stata abbandonata senza soldi in una situazione sconosciuta.
La sorella di Pedro di fronte a questi eventi si è sentita in colpa per averli indotti alla scelta di partire e così insiste perché sia il fratello a venire in Italia, assicurandogli di che farà ogni cosa per regolarizzarlo con l’aiuto di un’amica italiana. E infatti la sorella riesce nel suo intento di fargli ottenere una “chiamata” regolare per i “flussi 2007”, convinta che in questo modo lui avrebbe potuto guadagnare di più per comprare una casa per la sua famigliola e vivere più agiatamente.
Pedro ottiene il “nulla osta” all’ingresso, relativo a quella chiamata inoltrata nell’autunno 2007, in aprile 2009, e quando parte sua moglie aspetta il secondo figlio. Per venire in Italia chiede un’aspettativa di un anno alla sua amministrazione, ma il ministero non accetta la sua domanda. Ma la sorella insiste: “vieni, vieni, qui è tutto pronto, non perdere l’occasione…” Lui consulta un amico avvocato che gli suggerisce di fare un ricorso contro lo stato, e così fa, delegando un fratello a seguire la causa amministrativa, e parte: siamo in maggio 2009.
Pedro ha ricevuto in Perù il nulla osta all’ingresso, ma per potersi “regolarizzare” deve sottoscrivere il “contratto di soggiorno” insieme alla datrice di lavoro che lo ha chiamato. Qui si scontra con l’incredibile lungaggine burocratica dell’iter: devono infatti aspettare che la Prefettura li chiami e solo dopo la fatidica firma del contratto potrà fare la domanda di permesso. E’ durante questa attesa che il fratello gli comunica che hanno perso il ricorso: l’aspettativa è negata e se vuole mantenere il posto di maestro deve rientrare subito in Perù. A questo punto Pedro si trova in una impasse: non è ancora regolare, infatti non ha neppure la famosa “ricevuta” dell’inoltro della domanda di permesso, cioè, in pratica è un clandestino. Gira tutta Bologna per trovare lavoro, ma senza documenti in regola non trova nulla: gli dicono “se hai la ricevuta ti prendiamo, senza ricevuta non puoi lavorare”. Dall’altra parte sua sorella gli dice “se parti non potrai più tornare, non hai ancora stipulato il contratto di soggiorno, non avrai un’altra possibilità – avrai buttato il tempo e il denaro!” E siamo arrivati a giugno 2009.
Pedro prende l’unica decisione praticabile in quel momento: rimane in Italia, in pratica obbligato perché non ha soldi, è pressato dai debiti e l’unica possibilità è andare avanti nella speranza che le cose si sistemino. Fatalmente perde il posto in Perù.
Luglio 2009: finalmente l’appuntamento alla Prefettura per firmare il “contratto di soggiorno”, sta per realizzarsi il sogno di avere questa “ricevuta miracolosa”! Con la ricevuta in mano, Pedro torna dalle imprese che pochi mesi prima gli avevano risposto che ci voleva la ricevuta e qui comincia il dramma peggiore: questa volta la risposta è “non c’è lavoro - torna al tuo paese - c’è la crisi”. Alcuni gli chiedono cosa sa fare, risponde: sono laureato, sono disponibile a fare qualsiasi lavoro. Promesse… promesse e porte in faccia fino a quando trova una impresa di pulizie che lui considera la sua grande fortuna: ha finalmente un lavoro in regola.
Dopo sette mesi (oggi), pesando costi e benefici, valuta che non ha realizzato un grande affare: ha un lavoro tutt’altro che sicuro, un lavoro che non avrebbe mai pensato di fare e ha perso un lavoro stabile e molto più gratificante al suo paese. Ha lasciato i suoi due figli, il secondo ha solo 3 mesi. Dopo aver dedicato gran parte della sua vita a studiare capisce che non è nato per fare questa vita priva di senso e gli pesa molto essere separato dalla sua famiglia. E’ partito inseguendo un miraggio di ricchezza, seguendo l’onda, ma ora capisce che i soldi non sono tutto.
Ecco il suo pensiero oggi, dopo meno di un anno dal suo arrivo: “Ne ho abbastanza, voglio tornare per recuperare la mia dignità, ho sempre lavorato a testa alta. Quando ero in Perù sentivo i miei compaesani dire che l’Italia è il paradiso, l’Italia è il modo più desiderabile, ma io, dopo averla conosciuta questa terra dico che non voglio che i miei figli crescano in questa società. Penso che se devo fare una vita da meno che precario, allora è meglio che la faccia al mio paese. I compaesani pensano che sono pazzo, ma l’eredità che voglio lasciare ai miei figli è il senso e il valore della dignità e la volontà di costruire la libertà nel loro paese. Ho già prenotato il biglietto per il Perù.”

Abdellatif, Aziz e Mustafa - Marocco
Incontriamo insieme 3 lavoratori marocchini, due molto giovani e uno più maturo, tutti dello stesso paesino del sud del Marocco. Nessuno di loro è ancora in grado di raccontarsi in italiano, ma comunichiamo attraverso un interprete.
Abdellatif: è un uomo che ha passato i quaranta, scuro di pelle, piuttosto alto e molto magro, leggermente ricurvo, con sottili baffetti a sottolineare una dentatura piuttosto irregolare. Il suo volto e i suoi modi schivi e deferenti parlano della sua origine contadina e contrastano con le vicende funambolesche e avventurose che ci racconta.
Abdellatif sceglie la strada della Turchia per entrare in Europa, e da lì dritto fino alla Grecia clandestinamente. 7 giorni, camminando giorno e notte. Dalla Grecia prova una prima volta a venire in Italia su una nave, ma la polizia greca lo ferma e lo riporta in suolo greco, dove passa tre mesi in carcere. Una volta uscito, passa altri 3 mesi a lavorare nei campi, poi tenta nuovamente di entrare in Italia e stavolta ci riesce, nascosto nel telaio di un camion su un traghetto dove passa 48 ore, finché non arriva ad Ancona. Qui trova un paio di amici marocchini che l’aiutano a riprendersi, anche fisicamente, da una tale esperienza (in questo come in molti altri casi le sigarette giocano un ruolo essenziale). Da li, sazio di nicotina ma senza un soldo, Abdellatif prende un treno per Bologna, dove si trova tutt’ora, presso un gruppo di suoi compaesani.
A questo punto si è davvero ricreduto sull’Italia: se dalla Grecia il belpaese gli sembrava un paradiso, dopo qualche anno di vita clandestina in Italia rimpiange la Grecia. Dice: “Quelli nella mia condizione hanno più privilegi in Grecia rispetto all'Italia”. In Grecia per lui la vita era paradossalmente più facile, anche perché questo paese è un vero e proprio ponte che viene usato per passare nel continente europeo, tra cui appunto l’Italia.

Abdellatif è sposato e ha una bambina. Moglie e figlia vivono in Marocco, la bambina al momento della sua partenza aveva un anno, adesso ha 5 anni e sono 4 anni che non vede né lei né la moglie. Quando parla con sua moglie al telefono, la sua priorità è farla stare tranquilla: non dice la verità sulla sua condizione e fino a un anno fa riusciva anche a mandare loro un po’ di soldi, ma oggi a causa della crisi non riesce neanche a mantenere se stesso.
Non vede aprirsi grandi prospettive, ma anche se continuerà ad andare così la sua vita, non è comunque disposto a tornare indietro, piuttosto cercherà fortuna in un altro paese. Del resto, inizialmente, il suo sogno era quello di recarsi in Gran Bretagna.
Sono 4 anni di progetti di vita falliti per lui. Non può certo tornare e fare come se nulla fosse successo. Lavorava la ceramica in un’azienda di Casablanca, ma il lavoro era mal pagato, senza diritti e supersfruttato. In Marocco non ci sono garanzie per i lavoratori: negli ultimi mesi il padrone non gli pagava neppure l’intero magro stipendio. Ma oggi a Bologna, se possibile, gli va ancora peggio: se infatti a Casablanca riusciva comunque a mettere da parte qualcosa, il costo della vita a Bologna gli impedisce qualsiasi risparmio.
Abdellatif afferma di non avere problemi con gli italiani con cui si trova a contatto, ma afferma anche che se il governo promuove xenofobia e nazionalismo, non fabbrica qualcosa di buono per l’uomo: inevitabilmente la società gli si conforma, divenendo essa stessa razzista.

Aziz: è un giovane di 25 – 30 anni, fisico prestante, grandi occhi scuri dallo sguardo diretto e un sorriso accattivante sotto i baffi. Si definisce una persona semplice, un contadino, e spesso parla delle sue disavventure con autoironia.
Aziz fa il suo ingresso in Italia in modo formalmente “legale”: cioè, paga 7.000 euro a un ‘mediatore’ marocchino che gli procura un contratto stagionale di facciata dall’Italia per farlo entrare regolarmente, ma Aziz è consapevole che il contratto di lavoro non sarà effettivo una volta giunto in Italia: i 7.000 euro servono solo per entrare. In tanti fanno così.
Per pagare il mediatore la famiglia di Aziz vende i propri scarsi beni: sono contadini, vendono le mucche. Ma non basta, Aziz deve anche contrarre debiti onerosi. Tutto questo, solo per venire in Italia, perché per sistemarsi riponeva delle speranze su degli amici già inseriti che pensava l’avrebbero aiutato. Aziz era un semplice contadino in Marocco, pensava di essere stato più furbo dei suoi fratelli nel tentare la fortuna in occidente, pensava che per lui ci sarebbero state più chances e invece, fino a questo momento, la sua scelta ha causato il netto peggioramento delle condizioni di vita anche della sua famiglia, che non ha più nemmeno le mucche ma solo i debiti! Un errore di valutazione che gli costa caro. Molto caro.
Ora non sa davvero come fare. Il permesso di soggiorno temporaneo acquisito con i primi 7.000 euro è scaduto in breve tempo e I lavori saltuari, con la pubblicità o nei cantieri, che è riuscito a rimediare non gli permettono di rinnovarlo. Ora rimane irregolare in attesa di essere “sanato” in qualche modo. I guadagni che derivano da lavori di questo tipo peraltro sono minimi e non riescono neanche a garantirgli la sopravvivenza in una città come Bologna, figuriamoci a sanare i debiti di famiglia. Aziz avverte molto il gap linguistico, che lo condanna a lavori di questo tipo, che sono appunto i più umili e i più precari.
Alla domanda se abbia mai vissuto episodi di razzismo o di intolleranza ricorda un episodio in particolare: quando, arrivato in Italia, i poliziotti gli prendevano le impronte digitali, trattandolo in maniera incivile pur se in possesso di un contratto formalmente valido.
Aziz spera davvero che la moschea riesca a entrare nella cultura europea e in questa città, e vorrebbe un governo che innanzitutto sleghi il permesso di soggiorno dal mercato del lavoro, e che la durata dovrebbe essere almeno, dice lui, 5 anni. Che non si intrometta persino nella planimetria della casa che devi avere. Che gli permetta di venirne fuori in qualche modo. Ma il governo italiano sembra sordo a queste richieste.
La sua famiglia sa tutto della sua condizione, a causa dei debiti: ora come ora, dice Aziz, non gli è assolutamente possibile tornare in Marocco “neanche da morto”!

Mustafa: è un ragazzo giovane, poco più che ventenne, di pelle abbastanza scura, come molti del sud, e lineamenti fini. Parla con atteggiamento timido. Viene anche lui da un background contadino e decide di partire perché ha visto che tanti altri giovani si sono “sistemati” in Italia.
Mustafa entra in Italia anche lui da “regolare”, con un contratto “comprato” nel settore edile. Il ‘mediatore’, che come nel caso di Aziz è marocchino, gli dice che dovrà pagare “solo” 3.000 euro. In seguito però il ‘datore’, anche lui marocchino, gliene chiede “solo” altri 5.000. Tutto questo per un contratto a tempo determinato. Lui sente di non avere altra scelta, e paga.
Il cosiddetto datore, una volta che Mustafa è giunto in Italia, lo fa effettivamente lavorare come muratore per 4 mesi (più che altro per garantirsi in caso di eventuali controlli) ma non lo paga e poi lo lascia per strada, a Firenze, e senza un soldo in tasca. Cosa ancora peggiore, non gli fornisce un ‘CUD’, insomma qualche straccio di documento che attesti almeno formalmente dei guadagli leciti, così il giovane e inesperto ragazzo di campagna si trova di fatto sbarrata ogni strada per la regolarizzazione. Infatti, allo scadere del permesso iniziale, non ha un contratto in essere da esibire e l’impossibilità di produrre documenti che attestino qualche precedente entrata gli impedirà di ottenere un rinnovo, dopo i 6 mesi concessi per “ricerca di lavoro”, perché, con i lavoretti per lo più in nero che al massimo riesce ad ottenere, non riesce comunque a raggiungere la soglia minima di reddito richiesta dalla legge.
Nonostante le cifre pagate, scivola quindi inesorabilmente nel buco nero della clandestinità.
La situazione è precipitata anche per la famiglia che, se prima che Mustafa partisse si aspettava grazie a questo grosso investimento di ricevere soldi da lui, ora deve invece mandargli dei soldi per la sua sopravvivenza.
Valgono gli stessi problemi di Aziz: non può tornare in Marocco con un debito del genere sulle spalle, anche se disilluso è costretto ad andare avanti.
Mustafa ha da dire alcune cose sul comportamento degli italiani: una volta, mentre era in bicicletta, da una macchina qualcuno gli urla di tornarsene al suo paese, sennò avrebbe chiamato i carabinieri. Dopo un primo momento di spavento lui ha lasciato perdere e ha continuato la sua strada. Nei cantieri dove ha lavorato come manovale inoltre, è stato spesso trattato come immondizia sia da capi e colleghi italiani e anche stranieri di altri paesi (dell’est europeo), a volte si è reso conto che non gli rivolgevano neanche la parola o che lo consideravano poco soprattutto perché non è ancora in grado di esprimersi in italiano.

Queste sono solo tre storie agghiaccianti, per chi volesse leggerne altre, non meno aberranti, ecco il link http://www.iconfinidellumano.it/bossi-fini/testimonianze.html

Ho letto da qualche parte, da elettori leghisti, che la politica leghista per l'immigrazione è tollerante .... questa non è tolleranza ... è peggio dell'intolleranza ... E' SFRUTTAMENTO

Gli italiani ( anche i leghisti) hanno dimenticato la loro storia.

Ho scelto di postare queste testimonianze perchè ,credo, dobbiamo occuparci di cosa avviene nel nostro Paese, la gente deve essere informata, questi sono temi che vengono occultati in tv.

La politica leghista sull'immigrazione viene fatta passare per tollerante, giusta e necessaria.

La sicurezza secondo loro si ottiene così. Io credo che invece l'insicurezza aumenti. L'immigrazione va regolamentata, ma va soprattutto governata e soprattutto vanno controllate le imprese che sfruttano. La politica deve tendere all'integrazione attraverso progetti mirati, in collaborazione con le scuole e con le imprese, con le associazioni e deve dare l'esempio della solidarietà. Punire chi non rispetta le regole ... ma che siano regole non in contraddizione con i fondamentali diritti umani.

I leghisti poi sono l'emblema della mistificazione ... udite, udite... si definiscono cattolici ( Cota l'ho sentito poco fa a Porta a Porta definirsi tale)... un bell'esempio di "cattolicesimo progressista" ...alla loro maniera.


2 commenti:

  1. E' un bellissimo post, brava.
    Storie di ordinaria follia collettiva, intesa come chiusura, da parte nostra, verso il nuovo che in questo caso sono le persone con culture differenti.
    Una battuta, se mi è permesso, mi piacerebbe prendere uno di quei soggetti, maestra che sia, e metterli in mezzo al deserto e dire loro: adesso arrangiati da solo.
    Ma noi siamo campioni a prendercela con i deboli onesti, mentre lasciamo correre contro chi delinque.
    Comunque paghiamo lo scotto, come sinistra, di non aver saputo legiferare sul problema immigrazione con una legge seria. E' ovvio che arrivando i fan dell'apartheid le cose diventino poi così.

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  2. Poveri immigrati che si sono fermati in Italia, bastava Loro fare qualche passo in più e oltrepassare le Alpi, si sarebbero senz'altro trovati meglio come i connazionali che ce l'hanno fatta e vivono dignitosamente.
    Concordo con Lorenzo, manderei quella maestra nel deserto con una borraccia d'acqua e un piccolo foro in dondo... e poi le direi di arrangiarsi con la linfa di qualche cactus, sempre se ne troverasse uno!

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