"Lasciate che chi non ha voglia di combattere se ne vada. Dategli dei soldi perche' acceleri la sua partenza, dato che non intendiamo morire in compagnia di quell'uomo. Non vogliamo morire con nessuno ch'abbia paura di morir con NOi!"
Enrico V-William Shakespeare

sabato 24 marzo 2012

Un po' di ordine e informazione - Il modello tedesco è l'attuale nostro art.18




Modello «tedesco», modello «americano»? Grande è la confusione sul regime dei licenziamenti. L’impressione è che la ministra Fornero – che secondo qualche giornale vorrebbe fare una riforma «alla tedesca», persegua piuttosto un modello fai da te, all’amatriciana (con tutto il rispetto per questa ottima ricetta, che richiede gran cura nel combinare pomodoro, cipolla, guanciale e pecorino).
Nessuna delle idee di Fornero su come regolarsi qualora risultino ingiustificati i motivi addotti dal datore di lavoro – lasciare al giudice l’opzione tra indennizzo e reintegrazione se si discute di presunte inadeguatezze «soggettive» del lavoratore, oppure prevedere solo l’indennizzo se le motivazioni vertono su problemi «oggettivi» dell’azienda, di natura economica o organizzativa – vengono praticate in Germania. Farebbero anzi sobbalzare dall’indignazione ogni giudice del lavoro tedesco.
Più legittimamente si riferisce a un «modello tedesco» chi propone la possibilità di patteggiare un indennizzo, come alternativa a uno scontro dall’esito incerto davanti al giudice. In Germania questa possibilità è stata rafforzata nel 2004 dal governo del socialdemocratico Gerhard Schröder, che nel suo cancellierato dal 1998 al 2005 ha flessibilizzato il mercato del lavoro e ridotto le tutele del welfare. Chi, nel partito democratico e dintorni, caldeggia i patteggiamenti, farebbe perciò meglio a parlare di «modello Schröder». Tenendo presente che fu proprio questo modello a causare la sconfitta elettorale del politico socialdemocratico e a consentire la vittoria della democristiana Angela Merkel. Se Bersani vuol fare la stessa fine, si accomodi.
Il richiamo a modelli stranieri serve solo a gettare fumo negli occhi del pubblico, vantando l’una o l’altra rispettabile ascendenza. Un gioco fuorviante, se non si precisano le norme a cui ci si riferisce. Il diritto del lavoro tedesco infatti non è rimasto immutato nel tempo. Dagli anni ’90 è stato più volte manipolato in senso neoliberista, anche se in Germania ci è stato almeno risparmiato di sentir parlare con lingua biforcuta di «manutenzione» quando si smantellava.
Quel che resta in piedi oggi è molto più vicino al regime previsto in Italia dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori di quanto vogliano farci credere Fornero e consorti. Il patteggiamento in Germania è solo un’opzione. Se il lavoratore è convinto di poter dimostrare in tribunale le sue buone ragioni, può sempre impugnare il licenziamento per motivi «soggettivi» o «oggettivi», puntando alla reintegrazione. Se il licenziamento risulta ingiustificato, viene automaticamente dichiarato nullo, e quindi si riconferma nel suo immutato vigore il contratto di lavoro preesistente. Con tanto di penali per il datore di lavoro, e pagamento del salario dovuto per il periodo che va dal licenziamento alla sentenza.
Questa tutela spetta dopo sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro, perché questa è la durata massima per il periodo di prova, non tre anni come vorrebbe Fornero. L’obbligo di reintegrazione scatta per le aziende a partire da 10 dipendenti, non oltre i 15, come adesso in Italia. Il licenziamento va comunicato e motivato dal datore di lavoro alla rappresentanza sindacale aziendale, il Betriebsrat. E se il consiglio aziendale non lo ritiene giustificato, formula un’obiezione scritta, che ha un peso rilevante nel caso si ricorra al giudice. Inoltre, se l’azienda ritiene di dover rinunciare a un lavoratore per motivi di ordine economico o organizzativo, non può licenziare a caso Tizio o Caio, ma solo chi tra i dipendenti ha la minore anzianità di servizio e meno familiari da mantenere.
In Germania, nonostante Schröder, non abbiamo nel 2012 una legge per la libertà di licenziamento, ma una «legge per la tutela dai licenziamenti» (Kündigungsschutzgesetz). La versione originaria del 1951 prevedeva il reintegro del lavoratore, qualora la motivazione adottata dal datore di lavoro non regga all’esame del giudice, in aziende con più di cinque dipendenti.
La prima manipolazione filopadronale risale al governo del democristaino Helmut Kohl, che nel 1996 spostò la soglia a dieci dipendenti. Nel 1999 Schröder, quando Oskar Lafontaine era ancora ministro delle finanze e presidente della Spd, revocò questa controriforma, e tornò a cinque dipendenti. Nel 2004 il cancelliere Schröder ci ripensò, ripristinando la soglia di dieci dipendenti, come a suo tempo disposto da Kohl.
Sempre nel 2004 Schröder introdusse il diritto a un indennizzo (mezza mensilità per ogni anno di durata del rapporto lavorativo) per il lavoratore licenziato per motivi organizzativi o economici, se rinuncia a contestare in tribunale il licenziamento. Si tratta di un incentivo a rinunciare al processo. Ma il diritto di intentarlo, con l’obiettivo della riassunzione, resta intatto.
Fonte


Lorenzo

1 commento:

  1. Infatti! Qui ci rifilano i modelli degli altri Stati in maniera distorta, puntano sull'ignoranza della gente. In Germania non ci sono imprenditori al Governo, se proprio vogliono adottare quel sistema cominciassero a mandare via i politici che hanno le mani in pasta nelle aziende, banche, assicurazioni e via dicendo. Fino a quando ci saranno imprenditori ai posti Istituzionali, possiamo solo sognarcelo anche il più elementare dei diritti.
    Bravo Lorenzo per questa esatta precisazione che smentisce quanto la Fornero attesta.

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